Good Life

06.10.2016

“Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi”. Una morte senza dignità nella corsia di un ospedale romano, tra tossicodipendenti e gli sguardi indiscreti di visitatori rumorosi. E’ successo al padre di un collega di askanews, Patrizio Cairoli, che a qualche giorno dal pesante lutto ha deciso di scrivere una lettera al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per denunciare quanto accaduto e perché, forse, qualcuno intervenga affinché non accada più. “Sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte”, denuncia il figlio nella lettera; “metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati”, “Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso”, e invece le cure palliative si sono trasformate in un calvario: “Mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare”.

“NESSUNO CI HA AIUTATI” – “I medici non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina”, racconta il giornalista. “Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l’ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina”.

LE ULTIME ORE IN CORSIA – Qui, la situazione si è aggravata velocemente. “Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre”.

UNA MORTE SENZA PRIVACY NÈ DIGNITÀ – Le proteste dei familiari per ottenere una stanza in reparto o in terapia intensiva non sono servite a nulla. “Sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri ‘servono per garantire la privacy durante le visite’; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera. Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia”.

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